Signora, signorina, ragazza…veramente sono Dottoressa!
La lingua, struttura dinamica in continua evoluzione e cambiamento, se da un lato esprime la visione del mondo, dall’altro condiziona e guida tale visione. Per questo motivo la lingua non è neutra ma anzi contribuisce a costruire e rafforzare i vecchi e nuovi stereotipi sociali, e poiché il legame tra linguaggio e potere si forma molto presto nella vita di un individuo, imparare a riconoscere questa dinamica è fondamentale per raggiungere una maggiore autocoscienza e comprendere quali presupposti guidano le nostre analisi.
L’azione discriminatoria del linguaggio spesso passa inosservata, ed è talvolta accettata e incorporata nella nostra mentalità senza essere riconosciuta appieno. Il linguaggio può essere utilizzato in modo discriminatorio sia nella sfera pubblica che lavorativa, soprattutto nel contesto delle discriminazioni di genere: un esempio comune è rappresentato dall’incertezza linguistica per la quale si tende a utilizzare il maschile per enfatizzare l’importanza dei titoli.
Alcuni studi hanno dimostrato che il sessismo può generare atteggiamenti negativi verso le donne che occupano posizioni di potere: il sessismo ostile che ne deriva si manifesta ad esempio attraverso la svalutazione del titolo ricoperto da una donna, la quale nella sfera pubblica e lavorativa viene chiamata “signorina”, “signora” o ragazza” anche se ha acquisito titoli di studio o professionali prestigiosi.
Come hanno denunciato molte lavoratrici, questo è un cliché che si verifica molto spesso negli ospedali (vedi: la notizia del cartello comparso nei corridoi dell’Asl di Frattamaggiore nel napoletano: “In questi ambulatori non esistono signorine ma dottoresse”) e contrasta con i dati di FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri. Secondo la FNOMCeO infatti, su un totale di 329.263 medici con meno di 69 anni, e quindi potenzialmente in attività nel Servizio sanitario nazionale, il 52% – pari a 170.686 persone – sono donne, e la netta maggioranza di esse ha meno di 55 anni.
Anche se definire una dottoressa “signorina” o “signora” avviene spesso senza intenti discriminatori, riferirsi a professioniste con questi appellativi significa ignorare e talvolta nascondere il valore professionale e la competenza tecnica. Bisogna inoltre sottolineare come entrambi i termini non forniscono una descrizione significativa della persona a cui si riferiscono, ma si limitano piuttosto a indicare il loro stato civile e sentimentale: sappiamo infatti che signorina viene comunemente utilizzato per indicare donne non coniugate, mentre signora, tradizionalmente, indica lo status di donna sposata. Utilizzare questi termini per definire una professionista ancora una volta significa relegare le donne al solo ambito familiare e personale, senza riconoscerne il valore, la qualità e la competenza nel contesto lavorativo.
Questo tipo di discriminazione è associata a un’altra criticità del linguaggio sessista che già dal 1987 era stato messo in luce da Alma Sabatini alla Presidenza del Consiglio e che si manifesta ancora oggi, ossia l’assorbimento del femminile nel maschile: questo accade quando si utilizzano termini relativi a titoli, cariche, professioni e mestieri coniugati in relazione al genere e non crea opposizione quando si tratta di professioni come cameriera, cassiera, parrucchiera, ma lo fa quando si tratta di professioniste con laurea, ad esempio ingegnera.
Anche in questo caso intervengono fattori sociali e culturali che continuano a limitare la piena possibilità di esercitare professioni di prestigio da parte delle donne. Nonostante le sue radici storiche risalenti al tempo in cui la laurea era tradizionalmente prerogativa maschile, questo fenomeno nasce dall’idea e contemporaneamente contribuisce a rafforzare lo stereotipo secondo cui professioni di prestigio, incarichi di responsabilità e le posizioni autorevoli siano appannaggio maschile.
Ora che abbiamo queste informazioni è utile chiedersi: perché alcune persone sono contrarie alle innovazioni del linguaggio?
Tra le principali argomentazioni sostenute da chi è contro una riflessione più attiva sulla lingua vi è l’idea che le novità linguistiche intacchino la tradizione e la riflessione sul cambiamento del linguaggio sia un attentato alla libertà di parola. Questa prospettiva è però presto smentita, poiché non si tratta di imporre ma di suggerire e stimolare la creatività, oltre a favorire i contributi soggettivi. Alcuni sostengono inoltre che il linguaggio abbia poca rilevanza e che ci siano cose più importanti per cui lottare, ma le risorse non sono limitate e possono essere indirizzate verso molteplici cause senza esaurirsi, non esiste un limite alle battaglie da portare avanti.
Dall’analisi condotta emerge come sia indispensabile attivare una riflessione sulla lingua, la quale rappresenta il principale strumento di comunicazione, così da contribuire alla formazione di una coscienza linguistica critica. Ciò presuppone una vera e propria azione socio-culturale, un ripensamento più consapevole sugli elementi culturali, sociali ed etici del linguaggio che si riflettono purtroppo molto spesso nella discriminazione delle donne nel lavoro.