Le previsioni su mercato e occupazione dopo il coronavirus
Le conseguenze economiche del lockdown del nostro Paese si fanno già sentire in termini di perdita di PIL, di diminuzione della ricchezza prodotta. Ma ancora più gravi saranno le conseguenze per imprese e lavoratori: se la visione più ottimistica parla di 98mila imprese a rischio fallimento per un totale di 2 milioni e 200 mila lavoratori, la piuù negativa conta a rischio fallimento oltre 170 mila imprese per un totale di 3.800.000 lavoratori. Per questo gli interventi del Governo dovranno essere rapidi e convincenti.
Ne parlano approfonditamente il prof. Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, e Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff .
Se le previsioni economiche in relazione soprattutto al rapporto debito pubblico-PIL sono molto preoccupanti, in assenza di seri provvedimenti di politica economica e industriale (si legga “mettere a punto un piano per far ripartire in sicurezza l’industria”) da parte del governo, dal punto di vista del lavoro il peggio deve ancora venire. È intuitivo che lo stop alla maggior parte delle attività produttive e dei servizi e la compressione dei consumi generata dal lockdown provocherà una sostanziosa riduzione della ricchezza prodotta, misurabile sia pure un po’ grossolanamente col PIL, una perdita di quote di mercato e fatturato per le imprese e una conseguente ridondanza di offerta di lavoro.
Immaginare in questa drammatica fase di inoccupazione di fare una sanatoria più o meno temporanea per gli stagionali in agricoltura o immaginare una sanatoria generale, come evidenziato acutamente da Natale Forlani da queste pagine, e lasciare inattivi i percettori del reddito di cittadinanza e i tanti che usufruiscono di ammortizzatori sociali è una follia tipicamente italiana; di gente che, parafrasando il passo del Manzoni su Don Abbondio, proprio non ha coraggio e attributi.
Ed è altresì intuitivo che questi danni saranno direttamente proporzionali alla durata dell’emergenza sanitaria, a quello che accadrà negli altri Paesi, spesso nostri competitors, e alle misure governative atte a contrastarla. Tentare di mettere a fuoco portata e condizioni del fenomeno non è un esercizio accademico, ma un primo sforzo per quantificarne gli impatti e individuare i provvedimenti necessari a fargli fronte. I problemi del dopo COVID-19 si manifesteranno sia sul versante delle condizioni delle imprese, e quindi dell’occupazione, sia sul piano delle dinamiche finanziarie necessarie per il sostegno alla liquidità del sistema economico, con tutto quello che implica in termini di spesa pubblica, indebitamento e rapporti con l’Unione Europa. Il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha già pubblicato negli scorsi giorni le previsioni sui possibili scenari economici; in questa sede, ci concentreremo dunque sulle questioni del lavoro e dell’occupazione.
Sulla base della recente ricerca Cerved che misura le prospettive dei settori produttivi in termini aggregati e disaggregati in funzione delle previsioni di fatturato 2020 e 2021, si possono individuare due scenari: quello più ottimista, in cui la pandemia termina a fine maggio, e quello più pessimistico in cui si arriva a fine anno. Nel primo caso si prevede che il fatturato delle imprese scenda di oltre 7 punti nel 2020, per poi risalire nel 2021 ai livelli 2019. Nel secondo caso, la perdita stimata sarebbe invece di quasi 18 punti nel 2020 e la ripresa del 2021 consentirebbe sì e no di raggiungere i livelli del 2017.
Queste previsioni tengono oltretutto conto di una media di variabili, che concretamente potrebbero poi avere sviluppi diversi. Molto penalizzate sarebbero le imprese che lavorano per l’export, che generalmente sono anche le più avanzate sul terreno dell’innovazione, soprattutto nel caso di una chiusura delle frontiere europee (la riapertura della Cina non sarebbe sufficiente a riequilibrare le perdite). Gravi, come già segnalato, le perdite per le imprese dei settori turismo, ristorazione e servizi alla persona, che già ora stanno scontando le conseguenze del lockdown: perdite purtroppo irrecuperabili. Più nel dettaglio, il settore turistico-alberghiero, tenendo conto sia di tutte le imprese della filiera del turismo sia del trasporto aereo e dell’automotive, perderebbe il 73% del fatturato nel 2020 con l’ipotesi pessimistica e il 36% al verificarsi degli scenari più ottimistici. Come previsto dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, una perdita irrecuperabile del 50% del PIL prodotto nel 2019. A tenere sarebbero la filiera dell’alimentare, la farmaceutica, i settori dell’informatica, delle telecomunicazioni e delle applicazioni innovative per lavoro, convegni, meeting a distanza e, in parte, del commercio online; in crisi anche i sistemi “moda” e “casa”.
Sulla base di queste ipotesi e di quelle già formulate per PIL e debito, per quanto riguarda i livelli di occupazione, i due scenari indicati danno i seguenti risultati: 1) nello scenario più ottimistico, che prevede la fine della crisi tra il 20 e la fine di maggio, per una durata complessiva di 3 mesi esatti, e una traslazione dei debiti (interessi, ratei di mutuo, ecc.), le imprese a rischio fallimento sarebbero circa 98.000 per un totale di 2.200.000 lavoratori; 2) nel secondo caso, vale a dire con una crisi fino a fine anno, con conseguente difficoltà a traslare i debiti, le imprese potenzialmente fallite sarebbero 176.000 per un totale di 3.800.000 lavoratori.
Molto dipenderà dagli interventi pubblici a sostegno dell’economia. Da considerare in particolare che, nello scenario peggiore, sarà difficile poter traslare imposte e contributi e imposte dirette poiché tale flusso vale quasi il 60% di tutte le entrate – oltre 450 miliardi – e senza questi soldi, considerando che nel 2021 si dovranno rinnovare oltre 300 miliardi di debiti in scadenza, doverne emettere per 750 sarebbe impresa impossibile, anche considerando un grande apporto di acquisti della BCE. Tuttavia, come evidenziato, per l’Italia la zavorra dell’indebitamento potrebbe oggi non ostacolare un maggior debito, che però peserebbe spaventosamente nel dopo COVID-19: oltrepassare il “Rubicone” del 153% nel rapporto tra debito e PIL potrà anche essere perdonato da qualche Paese europeo, ma difficilmente i mercati lo accetteranno. Occorrerebbe un intervento anche del MES, con o senza condizionalità.
Più concretamente nell’ipotesi meno grave, se si facesse come dice Mario Draghi, si potrebbero risolvere i problemi di liquidità di quasi tutte le imprese, quindi teoricamente azzerare o quasi il rischio disoccupazione, ma ben difficilmente quest’ipotesi di scuola si realizzerà. In primo luogo perché non è così scontato che venga immessa nel sistema tutta la liquidità teoricamente necessaria; in secondo luogo perché è molto probabile che le imprese delle filiere maggiormente compromesse assumano comunque misure di contenimento dei costi del lavoro, riservandosi eventualmente di recuperare in seguito. In questo probabile scenario verranno sacrificati per primi i rapporti di lavoro più elastici: tempi determinati e part-time (che molto spesso vengono assunti con questa implicita funzione di ammortizzatore). La filiera che fa più uso di questo tipo di contratti è quella maggiormente indiziata come a rischio di default: turismo, ricezione, ristorazione. Solo in questi comparti sono circa 1.200.000 i contratti di questo tipo, candidati privilegiati alla risoluzione. Altri 100.000 si trovano nei servizi alle persone. Nelle altre filiere candidate alla crisi (automotive, trasporto aereo, moda e casa) queste tipologie contrattuali sono molto meno diffuse ma, in compenso, c’è molto lavoro in somministrazione che, per definizione, sarebbe ugualmente considerato rinunciabile. Stiamo parlando di circa 1.500.000 posti di lavoro (non ULA) a rischio molto concreto, che potrebbero essere meno se l’impegno del governo sull’erogazione di liquidità, e soprattutto sulla modalità di ripresa del lavoro, fosse particolarmente rapida e convincente. In caso contrario, questi numeri aumenterebbero perché anche i contratti stabili potrebbero finire in discussione.
Un altro indicatore (un po’ accademico) da considerare è il rapporto tra l’andamento del PIL e del tasso di disoccupazione. Secondo la Legge di Okun, riletta per la realtà italiana da Dell’Aringa, a un aumento di 1 punto di PIL corrisponde non necessariamente un incremento occupazionale, ma un incremento dello 0,5% delle ore lavorate. Secondo Daveri produce un calo di 0,37% del tasso di disoccupazione. Assumiamo che valgano grosso modo anche i valori inversi e ipotizziamo (stiamo sempre parlando dell’ipotesi più favorevole) che si perda il 5% del PIL: nell’ipotesi Dell’Aringa vuol dire perdere il 2,5% delle ore lavorate. Il che grosso modo è compatibile con la perdita delle ore lavorate da part-timer e tempi determinati nella filiera del turismo e nei somministrati. Nell’ipotesi Daveri sun calo di 5 punti del PIL dovrebbe determinare un aumento di 1,85% del tasso di disoccupazione. Prendendo sempre con le pinze questo indicatore, a tasso di attività fermo significherebbe circa 440.000 posti di lavoro perduti in termini di ULA. Facendo una media – discutibile sul piano formale, ma sostanzialmente efficace – si tratterebbe di circa 800.000 posti di lavoro perduti, pari a un calo del tasso di occupazione di 3,4 punti.
Poiché le stime Itinerari Previdenziali calcolano una perdita quasi doppia del PIL, il tasso di occupazione attuale – già modesto – scenderebbe disastrosamente dall’attuale 59% al 53%. Finiremo sotto la Grecia?
*Il seguente articolo è stato pubblicato su Il Punto Pensioni e Lavoro, 30 marzo 2020