Le nuove relazioni industriali
Continua la discussione sul futuro del welfare, a tal segnaliamo l’intervento di Maurizio Castro, Direttore Scientifico Master in Crisis & Change Management CUOA Business School, pubblicato ne “Il diario del Lavoro” nel quale vengono presentate alcune linee di tendenza per una rinascita delle relazioni industriali come conseguenza dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo.
In un tempo così turbolento, in cui dilaga alluvionalmente in tutte le terre del mondo una buia epidemia, gli scenari che si disegnano per il post-Covid hanno elevate probabilità di rivelarsi errati. Eppure, è proprio questo il tempo in cui i protagonisti della vita economica e sociale debbono esercitarsi in quegli stessi scenari: infatti, uno dei principi più solidi del crisis management è che, quando si è nel mezzo della tempesta, scegliere una rotta e procedervi con decisione offre sempre maggiori speranze di salvarsi che abbandonarsi inerti (e inermi) alla furia delle onde e dei venti.
È in ogni caso fuor di dubbio che la crisi da pandemia segni la conclusione di una trentennale stagione storica, quella della globalizzazione (9 novembre 1989 – 31 dicembre 2019: dalla caduta del Muro di Berlino alla prima segnalazione a Wuhan di un paziente affetto dal nuovo virus). E che tale crisi sarà assai più grave, per la sua intensità e per la sua natura, di quella, pur lacerante, del 2007-2012: non a caso tutte le proiezioni economiche conducono a prefigurare una caduta del PIL italiano doppia di quella fatta segnare nell’anno peggiore della crisi precedente, il 2009 (-4,9%); e non a caso taluno appella la nuova crisi, a rimarcarne una sorta di diverso livello qualitativo, non già soltanto finanziaria, ma compiutamente antropologica. Essa infatti coinvolge, e sbriciola, la stessa idea di progresso che aveva animato e sospinto gli ultimi decenni.
Mutazioni così radicali recheranno con sé una profonda rimapattura delle relazioni industriali, che rappresentano il territorio culturale e organizzativo in cui s’incontrano, e vengono regolati, i rapporti fra gli apparati produttivi e le persone, saldate in comunità territoriali, che li abitano e li rendono funzionanti, nonché fra gli obiettivi economici di un assetto sociale e i parametri valoriali che ne costituiscono l’orizzonte di senso.
Provo a delineare alcune linee di tendenza delle relazioni industriali, assumendo che, a differenza della crisi precedente (che le ha viste troppe volte costrette nel ruolo, delicatissimo ma secondario, di tamponamento del conflitto sociale e dunque le ha viste prigioniere di una dimensione ancillarmente prasseologica e non protagonisticamente ideologica), questa genererà le condizioni per una loro autentica rinascenza:
1) le R.I. saranno più strutturate. Si assisterà, da parte delle imprese, a un resettaggio delle loro supply chain: esse diventeranno non solo geograficamente più concentrate (il c.d. back-reshoring) per aumentare il controllo gestionale e diminuire l’impatto di rischi esogeni, ma anche industrialmente più concentrate, con un rovesciamento della tendenza sinora dominante all’esternalizzazione e un marcato revamping dell’internalizzazione e cioè della ricostituzione di scanditi cicli produttivi integrati. Ciò significherà dimensioni maggiori delle imprese (e nella stessa direzione di condensazione dimensionale andrà anche la necessità di maggior robustezza per affrontare un conflitto competitivo che risulterà acuito e determinerà il collasso di molti operatori di stazza insufficiente), e dunque sistemi di rapporti collettivi affidati a rappresentanze interne ed esterne della forza lavoro dotate non solo di ruoli riconosciuti dalle prassi quotidiane di funzionamento dei sistemi produttivi, ma dotate anche di una governance contrattuale formalizzata e procedimentalizzata in modo adeguato e propulsivo.
2) le R.I. saranno più integrate nella complessiva governance aziendale. Nonostante negli anni di quella che chiamavamo la Grande Crisi (ignari di ciò che ci sarebbe poi precipitato addosso) le parti sociali siano state chiamate a presidiare e risolvere millanta situazioni di fragilità e di difficoltà d’impresa, ciò non ha determinato un significativo rafforzamento delle procedure di informazione e di consultazione previste dai contratti collettivi a livello nazionale, territoriale e aziendale. Il tema della cosiddetta Parte Prima dei contratti diventerà invece essenziale d’ora in avanti, allineando, incrociando e omologando la strumentazione di fonte pattizia con quella di fonte normativa nazionale e sovranazionale, la quale almeno dalla metà degli Anni Novanta sta costruendo un imponente apparato di regolazione teleologicamente orientato a garantire, quale discendenza di una concezione della natura d’impresa non più proprietaria bensì istituzionale, l’esercizio effettivo della responsabilità sociale e l’adozione di modelli organizzativi e amministrativi finalizzati alla legalità, alla trasparenza e alla continuità strutturale oltre le crisi congiunturali (si pensi solo al D. Lgs. 231/2001, al D. Lgs. 254/2016 e al D. Lgs. 14/2019 soprattutto nella parte in cui modifica l’art. 2086 cod. civ.). Pertanto, avremo vieppiù modelli misti o congiunti basati sulla collaborazione diagnostica e terapeutica delle organizzazioni e delle rappresentanze sindacali: per esempio, con la costituzione di comitati permanenti di consultazione strategica, con la partecipazione sindacale ai comitati di crisi, con la predisposizione di attività formative per assicurare la pariteticità delle competenze (oltre che dei ruoli) in tali organismi, con la redazione di bilanci sociali a matrice bilaterale, con la stesura di codici disciplinari condivisi per prevenire e sanzionare la fellonia ex D. Lgs. 231 o per proteggere i whistleblower e, più in generale, con l’assunzione di misure in cui la compliance si configuri come un presidio non amministrativo, ma sostanziale, e introiettato nella consapevolezza e nell’intenzione di entrambe le parti.
3) le R. I. saranno più concertative. È ormai evidente che la strategia di disintermediazione che ha caratterizzato la fase conclusiva della Grande Crisi e che intercettava le aspirazioni di gran parte delle forze politiche nuoviste, è fallita, o almeno si è esaurita (ha infatti bisogno, oltre che di uomini forti, di idee forti: e queste non si son viste). Ma probabilmente l’aspetto più rilevante della ritrovata centralità dei corpi intermedi risiederà non tanto nel rinnovare i fasti della concertazione nazionale (legata sempre, anche nei suoi anni più potenti, dal 1992 al 1998, alla politica dei redditi), quanto nell’articolare solide prassi meso-corporative a livello regionale, in cui declinare concretamente le scelte territoriali di politica industriale in termini di allocazione delle risorse finanziarie, di programmazione degli investimenti infrastrutturali, di supporto alle aziende, alle filiere e ai distretti in difficoltà, di coordinamento della ricerca, di finalizzazione della formazione, di ammortizzazione sociale, di accompagnamento alla razionalizzazione dei comparti mediante incentivi a fusioni e acquisizioni, alla composizione e all’equilibratura della distribuzione commerciale, all’orientamento dei canali del credito bancario e parabancario, ecc. ecc..
4) le R. I. saranno più partecipative. L’esito della pandemia certamente favorirà un rassodamento degli orientamenti neo-comunitari che si sono affacciati alla ribalta del dibattito pubblico negli ultimi anni: ma li declinerà, da un lato, in modo meno aggressivo e più aperto alla dimensione plurale di ogni efficace processo sociale, e, dall’altro, ne incentiverà la scaturigine pattizia, estirpando l’inclinazione paternalista che li stava infiltrando attraverso il vettore eterotrofo offerto dalla moda del welfare aziendale. La costituzione di una Gemeinschaft aziendale connotata da autenticità valoriale, limpidezza etica, coerenza strategica, struttura equilibrata di governo, flessibilità organizzativa, propensione innovativa, sincera mobilitazione emotiva e audacia competitiva sarà il presupposto del successo. Ed esigerà, in sintonia con le diverse identità culturali e con i diversi canoni etologici delle imprese, l’implementazione di specifiche forme di partecipazione: istituzionale, organizzativa, finanziaria, ecc.. In particolare, assisteremo al rilancio, sui versanti contrapposti della “vallata” in cui scorre il mainstream partecipativo, del modello duale di governance, con la valorizzazione del Consiglio di Sorveglianza come luogo dell’indirizzo strategico e del controllo rispetto all’autonomia manageriale che si esprime nel Consiglio di Gestione; e degli ESOP (employee stock ownership plan), dei piani di azionariato, come strumento attivo di generazione di capitale per l’investimento a lunga gittata e come elemento di conversione dinamica del tradizionale ruolo dei dipendenti da prestatori d’opere a soci di lavoro, da noleggiatori di tempo a portatori di destino.
5) le R. I. saranno più orientate alla produttività e alla sua remunerazione. Due questioni sono oramai divenute indifferibili: il rilancio della produttività dei fattori e segnatamente del fattore lavoro, dove il nostro Paese non registra performance adeguate dagli Anni Novanta; la rivitalizzazione delle dinamiche retributive, ferme anch’esse agli Anni Novanta e scollegate (a causa della dominanza di pratiche di welfare, per definizione destinate a coprire bisogni e per natura livellatrici) dal dispiegamento di competenze e dall’innovazione nell’organizzazione del lavoro. È troppo forte il ritardo accumulato, per non presagire l’avvio di un nitido processo di modernizzazione per via contrattuale (anche alla luce del fatto che la regolazione individuale e l’affidamento al monolateralismo datoriale si sono rivelati del tutto insufficienti).
6) le R. I. saranno più interventiste. Durante la Grande Crisi, è più volte emersa la dipendenza delle parti sociali e della loro progettualità operativa dalle disponibilità pubbliche, spesso scarse e comunque farraginose nell’azionamento, mentre, nelle aree in cui era stata ben impostata, ha funzionato al meglio la bilateralità (pensiamo al Veneto della bilateralità artigiana e del fondo regionale di previdenza complementare). Vi è da attendersi che nei prossimi mesi le parti sociali intenderanno munirsi di armi (cioè, strumenti) con cui intervenire direttamente, autonomamente e rapidamente in situazioni aziendali o territoriali o settoriali critiche per prevenirne o risolverne le crisi o per guidarne il rafforzamento competitivo. La forma più semplice è l’adozione di un “fondo di solidarietà”, alimentato, secondo l’intuizione carnitiana del 1981, dagli aumenti salariali dei lavoratori (lo 0,50% di allora, o altro valore) e integrato dal corrispondente versamento dei datori di lavoro, dotato di una governance agile ed efficace e dalle strategie chiare e ben comunicate e rafforzato da un management di provata competenza e indipendenza, che si muova sui singoli obiettivi attraverso SPV (special purpose vehicle) aperti alla cooperazione di altri soggetti pubblici e privati nella più schietta applicazione sul campo delle coalizioni di scopo.
7) Le R. I. saranno più endocratiche. In un tempo in cui le parti sociali saranno chiamate a un titanico sforzo di ricostruzione della ricchezza nazionale corrosa e sfibrata da Covid-19, la concordia apparirà come un valore essenziale e il conflitto come un elemento patologico. Dobbiamo dunque attenderci una fortissima accelerazione verso la disincentivazione al ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria come solutrice delle controversie individuali e collettive di lavoro e un avvicinamento al mondo dello sport che è tanto più imbibito di etica quanto più nel nome dell’etica stessa esclude che i suoi contrasti interni possano essere affidati a soggetti estranei al suo perimetro istituzionale. Finalmente, dopo la mancata applicazione della l. 183/2010, avremo l’applicazione dell’arbitrato, anche nella forma secondo equità, così come avremo collegi di composizione delle controversie collettive, con un sostanziale effetto di deflazione del contenzioso giudiziario.
8) Le R. I. saranno più coese. È molto probabile che riprenda slancio il processo unitario sul versante sindacale, che conduca, se non all’unità organizzativa, almeno a un solido patto federativo (che non consumi ben presto la sua energia organizzativa e culturale come il suo predecessore del 3 luglio 1972). Anche sul versante datoriale, si dovrebbe assistere a un ritorno nel seno di Confindustria delle numerose aziende che l’avevano lasciata dopo il 2011 (FCA in testa), non foss’altro che per dare un segnale di solidarietà imprenditoriale e di partecipazione coesa della borghesia produttiva alla ricostruzione del Paese; e, per le stesse ragioni “simbolico-narrative”, si dovrebbe assistere ad altri fenomeni analoghi, quali la fine della secessione di Federdistribuzione da Confcommercio, l’unificazione delle tre sigle dell’artigianato; è così via “riappacificando”.
*Il seguente articolo è stato pubblicato su Il Diario del Lavoro, 31 marzo 2020