Il sistema pensionistico italiano è sostenibile?
Lo scorso febbraio il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha presentato alla Camera dei Deputati il suo Sesto Rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano: bene, proprio il Rapporto confuta molti luoghi comuni diffusi nel dibattito pubblico in materia di pensioni, a cominciare da quello che vuole la spesa pensionistica fuori controllo. Al contrario, dal 2013 al 2017, al netto dell’assistenza, la spesa pensionistica ha fatto registrare un aumento medio annuo pari allo 0,88%, evidente sintomo del fatto che le riforme varate in questi ultimi vent’anni, pur non esenti da criticità, hanno colto l’obiettivo fondamentale di stabilizzarla e, più in generale, di mettere in sicurezza il sistema dal punto di vista della sostenibilità.
A preoccupare in termini di sostenibilità sono semmai i numeri dell’assistenza che, peraltro, in assenza di un contributo di scopo, è totalmente a carico della fiscalità generale. Separando previdenza e assistenza, oltre a far chiarezza sulle diverse voci che compongono la spesa pensionistica e a garantire un esercizio di equità a quanti i contributi li hanno versati effettivamente, si vedrebbe che il bilancio previdenziale è sostenibile e al netto delle imposte pure in attivo. Piuttosto, il vero problema è che negli anni alle prestazioni pensionistiche “pure”, si è affiancata tutta una serie di prestazioni sociali, senza che ne sia mai stata prevista una razionalizzazione tra i diversi enti erogatori (ormai ogni anno su 1,1 milioni di nuove prestazioni liquidate, poco più del 50% sono assistenziali). Il rischio è duplice: che queste prestazioni, in assenza di controlli efficaci, finiscano in tasche diverse dai cittadini realmente bisognosi e che, in assenza di un “casellario dell’assistenza” da realizzare sul modello già in suo di quello per le prestazioni previdenziali, la spesa continui a crescere a dismisura. Viceversa, una migliore allocazione delle risorse potrebbe portare a un risparmio fino a 5 miliardi di euro l’anno.
Ovviamente, fatte le dovute precisazioni, ciò non toglie che il sistema pubblico – sotto le pressioni di nuovi bisogni sociali come quelli indotti dall’atomizzazione delle famiglie e dal progressivo allungamento della speranza di vita – stia certamente vivendo una fase di difficoltà. E dinanzi all’impossibilità di stanziare ulteriori risorse per il sistema di welfare pubblico, cui già viene destinato il 54,01% della spesa, si fa sempre più evidente l’importanza di strumenti complementari.
Se è vero che il nostro Paese investe molto in spesa per protezione sociale (con valori tra i più alti d’Europa), lo è però altrettanto che le attività riguardanti i fondi di previdenza complementari si attestano intorno al 9,8% del PIL, ponendo l’Italia nella parte medio-bassa della classifica riguardante i Paesi OCSE… Quale il suo commento?
Il confronto con gli altri Paesi richiede sempre doverose premesse e anche quello riguardante il patrimonio dei fondi pensione impone alcune precisazioni: si tratta infatti di realtà tra loro ben diverse, dove la previdenza complementare potrebbe essere di fatto obbligatoria per tutti i lavoratori o para-obbligatoria (come nel caso del Regno Unito o dell’Olanda).
Bisogna insomma prima di tutto considerare che lo sviluppo della previdenza complementare dipende inevitabilmente dalla struttura del sistema pensionistico pubblico, dai tassi di sostituzione offerti e dalle modalità di adesione ai fondi pensione. In Italia, l’adesione rimane libera e volontaria, e non potrebbe essere diversamente se si considera l’elevato livello di contribuzione al sistema pubblico (il 33% dei lavoratori dipendenti è tra le percentuali più alte che si riscontra nel confronto internazionale), mentre il sistema pensionistico pubblico dei buoni tassi di sostituzione netti, che variano (rispetto all’ultimo reddito) tra il 60% dei lavori autonomi e il 70% dei dipendenti (quasi l’80% per le generazioni che stanno entrando ora nel mondo del lavoro e per le quali si prospetta una carriera e un’anzianità contributiva più lunga a seguito del progressivo inasprimento dei requisiti per la pensione). Certo, anche qui da noi i problemi non mancano ma, più che nel tanto dibattuto metodo di calcolo contributivo, andrebbero forse ricercati nel basso livello dei salari e in un mercato del lavoro ancora poco dinamico e, soprattutto, incapace di favorire un corretto incontro tra domanda e offerta.
Tutte ragioni per le quali, rispetto ad altri Paesi, si sente meno la necessità di iscriversi ai fondi pensione…
Certo, nel complesso, il sistema è in crescita, tanto più se si considera che la storia dei fondi pensione in Italia è relativamente recente rispetto a quella di altri Paesi, ma che le attese fossero ben più ottimistiche è evidente. I vantaggi fiscali associali all’adesione (e non solo) non mancano, ma prima ancora occorrerebbe agire sulla diffusione di un’adeguata cultura previdenziale e finanziaria, nonché di strumenti e mezzi necessari a promuoverla. Non va poi dimenticato che la raccolta delle adesioni tacite si è concentrata alla scadenza del primo semestre del 2007, perdendo poi forza propulsiva: riproporre periodicamente, sul modello UK, il meccanismo del silenzio-assenso potrebbe essere una prima soluzione.
In questo quadro quale, infine, il possibile ruolo del welfare aziendale?
Oggi il settore del welfare aziendale in Italia si trova in una fase di iniziale crescita, ma con enormi potenzialità, siamo insomma ancora lontani dal poterlo definire pienamente maturo. Dai dati si può intuire come i vantaggi offerti dal welfare aziendale restino ancora appannaggio prevalentemente dei lavoratori di grandi aziende, caratterizzate da una forte presenza sindacale. Tuttavia, grazie alle agevolazioni introdotte dal legislatore con le ultime Leggi di Bilancio, il tema sta riscontrando una crescente attenzione anche nelle piccole e medie imprese.
Un crescente bisogno di welfare aziendale che muove del resto propria dalla consapevolezza che il sistema di welfare pubblico palesa evidenti limiti e vi è dunque sempre più la necessità di strumenti complementari. Proprio per questa ragione sarebbe opportuno finalizzare maggiormente il welfare aziendale, concentrandolo su settori come la previdenza complementare, l’assistenza sanitaria integrativa piuttosto che tempo libero, sport, etc.