Agevolazioni e sgravi contributivi: una prassi diseducativa, che produce debito
Articolo di Alberto Brambilla Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali *
Per creare lavoro e incentivare i consumi non servono decontribuzioni e bonus ma un piano nazionale di sviluppo del quale però, al momento, non si vede neppure l’ombra: anche all’alba del Next Generation EU la politica italiana preferisce infatti rifugiarsi in sconti fiscali, rigorosamente a debito
Ormai è abitudine di tutti i governi, di centro, sinistra o destra: non c’è finanziaria che non preveda qualche agevolazione o sgravio contributivo previdenziale. Il motivo è semplice. Se si riducono le imposte si ha un immediato riflesso negativo sulle entrate, mentre la riduzione delle contribuzioni si riflette sul bilancio INPS, si mescola con una ridda di altre voci e pesa meno sui conti pubblici dell’anno.
Tuttavia, questa consuetudine è la causa dell’accumularsi di un enorme debito occulto e latente. Questi mancati versamenti di contributi non hanno infatti riflessi negativi sul calcolo della pensione perché è lo Stato che provvede, mediante contribuzioni “figurative” (vale a dire che si registrano sull’estratto conto contributivo i contributi utili alla pensione anche se non sono mai stati versati); sempre lo Stato rivaluterà poi questi “finti contributi” per l’intera vita residuale del lavoratore, riconoscerà cioè un interesse annuo sull’intera posizione, aumentando così l’ammontare del debito. Una comoda prassi per non avere gravami sui bilanci annuali, la classica politica italiana del giorno per giorno che rimanda i debiti al futuro.
In questo modo si falsa peraltro anche l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL, causa scatenante della riforma Monti-Fornero. Difatti l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL nel 2019 (simile anche negli anni precedenti) è stata pari al 12,5% nella media UE, mentre in Italia sfiora il 16%. Il solo effetto decontribuzione costringe lo Stato a trasferire ogni anno all’INPS, gestione GIAS (interventi assistenziali), oltre 20 miliardi: quasi l’intero disavanzo annuale dell’Istituto previdenziale per fronteggiare le minori contribuzioni, con un aggravio implicito della spesa pensionistica di circa 1,3 punti di PIL. Ma oltre a produrre debito, questa modalità è anche fortemente diseducativa: perché – si potrebbero chiedere i giovani – ci dicono che il futuro previdenziale è incerto, che si sono dovute fare una serie di riforme per tenere in equilibrio il bilancio pensionistico basato sul rapporto tra entrate contributive e uscite per prestazioni se poi si esenta un’enorme quantità di lavoratori e aziende dal pagamento dei contributi?
L’attuale Legge di Bilancio, che comunque segue il solco delle precedenti, prevede che una parte consistente di lavoratori sia esentata dal versamento dei contributi: il Sud con lo sconto pluriennale del 30%, le donne, i disoccupati, gli apprendisti, i giovani e così via. C’è da chiedersi a cosa servano le riforme delle pensioni se poi sono in pochi a versare l’unico contributo di scopo del welfare. E perché mai la stragrande maggioranza dei lavoratori dovrebbe versare i propri contributi sociali e poi pagare con le tasse i contributi degli altri? Dopo che Visco, l’ex ministro delle Finanze, ha abolito il contributo di scopo per la sanità pubblica (il vecchio 5%) scaricando i costi su un numero esiguo (meno del 40%) di contribuenti che, con le loro imposte, pagano la sanità ai restanti due terzi di italiani, ora si chiede a questi stessi contribuenti di pagare con le loro imposte anche le pensioni. E, attenzione, perché su 16 milioni di pensionati più della metà sono assistiti!
L’intera spesa assistenziale statale (totalmente fuori controllo, come COVID) costa ai contribuenti onesti 114 miliardi l’anno e altri 10 sono erogati dagli enti locali. Costa più dei 115 miliardi di sanità, peccato che a pagare questi 240 miliardi circa sia solo poco meno del 15% della popolazione, quelli che le tasse le pagano davvero ma che, a ogni manovra finanziaria, sono esclusi da bonus, sconti fiscali e altre agevolazioni. Sono i “nuovi schiavi fiscali” con redditi sopra i 55mila euro; i ricchi a cui magari appioppare una patrimoniale con la giustificazione che la “Costituzione” prevede che chi ha di più paghi di più. Il senso del dovere e il merito per aver raggiunto questo “di più” ai politici tipo LeU, grillini, PD, sinistroidi e affini non interessano.
Ma l’ultima e più importante domanda è: questa prassi perversa ha creato posti di lavoro nuovi? Non era meglio il credito d’imposta che premia le aziende dinamiche, mentre spesso lo sgravio contributivo è un gran bel regalo per le imprese decotte e del sottobosco produttivo in “grigio” o “nero”? Quanto è costata la decontribuzione Renzi? E quella per il Sud? Iniziamo con quest’ultima, in vigore per circa 25 anni fino al 1994 quando l’Unione Europea, ritenendola un aiuto di Stato, ha messo in procedura d’infrazione l’Italia: si trattava di uno sgravio contributivo totale (l’intero 33% a carico di lavoratori e imprese) costato centinaia di miliardi. La creazione di posti di lavoro è stata pari a zero, soldi buttati dalla finestra. Quando gli sgravi sono finiti l’occupazione non ha fatto una piega: così era e così, dopo 5 anni, è rimasta. La stessa cosa possiamo dirla per gli sgravi del governo Renzi; certo, hanno aiutato a creare nuova occupazione ma prevalentemente perché l’economia galoppava. Finito il ciclo positivo si è tornati punto a capo ma, tra il 2015 e il 2018, secondo le stime INPS i costi di questa decontribuzione sono stati pari a oltre 17 miliardi. Nel contempo, anche il bonus fiscale introdotto dal governo Renzi – che in 5 anni, dal 2014 al 2019, è costato quasi 50 miliardi – non ha prodotto granché.
La dura lezione è semplice: per creare occupazione e aumentare i consumi non servono decontribuzioni e bonus. Serve un piano nazionale di sviluppo di cui, all’alba del Next Generation EU, non si vede neppure l’ombra, mentre prolificano sconti fiscali, assegni unici per i figli e altre mance elettorali tutte rigorosamente a debito.